Quando mi è stato fatto l’onore di invitarmi a scrivere un piccolo libro per una nuova collana che si intendeva lanciare in Italia, sono stato portato in modo del tutto naturale a sviluppare le riflessioni elaborate in quell’occasione e a farne materia di questo saggio. Non si potrà dunque evitare la domanda: che cos’è un concetto, e (indissociabilmente) a cosa serve un concetto? che cosa va perduto, laddove abbiamo perduto il concetto? Il nostro ruolo è certamente di intervenire là dove si fa sentire (o, al contrario, non si fa sentire, ma a torto) un’angoscia relativa ai concetti, là dove non si è sicuri, o lo si è troppo, di possedere un concetto e dove, in effetti, si pone proprio la questione di sapere se se ne dispone o meno – cosa che, evidentemente, è una questione che concerne tanto noi (ma quale noi ?) quanto i concetti. Il concetto di frontiera si identifica ampiamente con quello di selezione: la selezione tra quelli che passano e quelli che non passano; essa, come è stato detto, riflette assai bene la disuguaglianza di fatto, abissale, che sussiste tra gli abitanti di questo mondo. Nell’effettuare la selezione, è possibile commettere degli errori di procedura (più o meno compiacenti); ma la selezione in quanto tale non è mai, o quasi mai, messa in questione: operare una selezione è il fatto primario; ciò che varia, tutt’al più, è il modo in cui viene realizzata e l’irrigidimento ideologico dell’operazione. con che diritto alcuni uomini impediscono ad altri di varcare il confine? Evidentemente, nessuno; in questo non vi è nulla che sia giustificabile in sé – cioè che lo sia al di fuori di un certo gioco tra concetti determinati. O meglio, e più precisamente, se vi è un diritto altro non è, in tutta evidenza, se non quello del nostro stesso concetto di frontiera. Interrogando questo concetto relativamente al suo diritto, poniamo una questione che non ha senso porre. Come se occorresse un diritto del diritto. E tuttavia, porre la questione ha il merito di far emergere un fatto: la fondamentale esclusione che è all’opera in questo concetto di «frontiera» e senza la quale non sarebbe possibile comprenderlo. Da questa prospettiva, la violenza non è a valle del concetto – nelle forme della sua trasgressione o nelle cattive applicazioni – ma risiede tutta a monte, nel cuore stesso del concetto. In questo senso, poiché non è detto che non ve ne siano altri, che ne sarebbe di un concetto «frontiera» non violento per essenza? L’idea è di porsi dinnanzi a sé l’imperativo che consiste nell’analizzare i nostri concetti, cioè di indagarne il fondamento di realtà che sempre si ritrova in essi, di sforzarci di guardarlo bene in faccia, anche e soprattutto se non ci piace, e di chiamarlo col suo nome. Quali sono gli effetti dei nostri concetti? Questa è la domanda cui è impossibile sfuggire, una volta riportati i concetti alla loro realtà. Allora, dove si colloca esattamente il «concettuale», se non nel fatto di operare delle distinzioni? – soprattutto quando esse divengono tipiche e acquisiscono una certa forma di «disponibilità». Vi è concetto nel linguaggio ordinario, come nei modi di pensiero ordinario (il che significa pur qualcosa), di cui esso è al tempo stesso uno strumento, il depositario, e fino a un certo punto, la matrice.
pp. 136
ISBN cartaceo 9788878850934
traduzione di Matteo Canevari con la supervisione e revisione di Fabio Merlini Quando pensiamo, usiamo certamente un materiale o un altro.Ma per questo motivo, questo materiale è qualcosa di intrinseco ai concetti di cui i nostri pensieri sembrano essere una modalità di esercizio?
Jocelyn Benoist , nato a Parigi nel 1968, è Professore all’Università di Parigi 1 Panthéon Sorbonne. Direttore degli Archivi Husserl di Parigi, in lingua italiana ha pubblicato I confini dell’intenzionalità, Milano, Bruno Mondadori, 2008
Premessa 1. Prologo: la debolezza del pensiero 2. Concettuale e non concettuale 3. La grana del reale 4. Pensieri privati? 5. Flessibilità 6. La realtà del pensiero